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Di Mimosa Martini – Intervista a Lucia Krasovec Lucas

Cambiamenti, crisi economica nuovi stili di vita e di lavoro stanno influenzando tutta la filiera dell’edilizia e il primo anello della catena, quello di chi deve progettare gli spazi e le città, è quello principalmente coinvolto. Ne abbiamo parlato con una delle opinioniste di NEC, l’architetto Lucia Krasovec-Lucas, da sempre impegnata su più fronti a favore di un adeguamento dei livelli di progettazione ai dettami di questi anni

Quali i fattori di cambiamento del mercato delle costruzioni e come questi fattori influenzano le scelte di imprese e progettisti?

Stiamo vivendo una crisi che non è solo economica ma anche sociale e intellettuale: secondo me c’è una difficoltà generale a comprendere la direzione da prendere per virare la rotta, anche se la via più immediata per ripartire è quella che passa dall’attenzione alle risorse disponibili. Le varie criticità si sovrappongono e il periodo è complicato. Ma il primo problema che dovremo affrontare sarà sicuramente di natura economica, e i cambiamenti riguarderanno l’intero assetto sociale.

Cosa pensa riguardo alle misure prese dal governo per far fronte alla crisi del settore delle costruzioni?

Capisco l’emergenza e capisco la necessità di prendere provvedimenti immediati per ovviare alla crisi, ma credo che sia necessario avviare in parallelo una riflessione più ampia. Le soluzioni temporanee, come ad esempio il 110%, servono solo a nascondere per un po’ la massa di polvere sotto il tappeto, a creare dissapori tra le categorie coinvolte, perché sono soluzioni che, senza una visione più ampia, non portano a un cambiamento vero e proprio, ma solo riparazioni provvisorie che spesso non risultano neppure di facile attuazione. Ritengo che non si possa continuare a lavorare sull’urgenza, ma sia necessario iniziare a programmare in modo da individuare innanzitutto le priorità del nostro Paese, partendo proprio da un’analisi del territorio, del patrimonio comune e della popolazione: cos’è, come è fatto, e poi definire norme, contributi, bonus. In pratica, nella comprensione di com’era e come sarà, avviare percorsi “test” che siano effettivamente efficaci e che possano successivamente diventare replicabili autonomamente.

Il 110% potrebbe diventare l’occasione per migliorare il patrimonio edilizio dello scarto e avviare così una riqualificazione che non è solo energetica, non avrebbe molto senso: il 110% potrebbe, se declinato meglio, produrre qualità, benessere e bellezza!

Inoltre, ogni intervento costruito si affaccia su uno spazio pubblico. Non è lo spazio a qualificare l’intervento, ma l’esatto contrario. È perciò fondamentale il cambio del punto di vista: qualunque opera deve valorizzare anche l’area circostante per poter essere sostenibile. Ad ogni azione corrisponde una conseguenza uguale nell’intensità e contraria nell’effetto. È un problema globale, di sistema Paese, evidenziato anche da una scarsa fiducia della politica verso i tecnici. Ma questo va compreso per poterlo affrontare adeguatamente: ci sono problemi a livello di formazione? Problemi nelle accademie o nei rapporti con il mondo del lavoro? Probabilmente sì, ma vanno affrontati all’interno delle politiche sociali e del lavoro per incidere sullo sviluppo culturale ed economico. Sarà necessario cambiare paradigma e cominciare a “disimparare per imparare”, ovvero capire gli errori e rimediare subito. Uscire dal loop, fermarci e cercare di capire dove andare.

Secondo lei, quindi, la chiave di volta potrebbe essere l’analisi del nostro patrimonio immobiliare?

Lo ritengo prioritario. Abbiamo un patrimonio enorme in questo Paese, ricchissimo di potenzialità, ma lo stiamo perdendo. Abbiamo fatto già troppi errori sia nell’intervenire che nell’abbandonare l’esistente, ora non possiamo più permetterci di sbagliare ancora. Siamo stati per secoli artefici dell’arte, dell’architettura, del design, dei giardini, innovatori per antonomasia e creatori di bellezza. Adesso ci stiamo lasciando tutto alle spalle, ed è davvero un peccato mortale essere così sviliti. Ci stiamo auto-riducendo a un Paese con poche speranze, con poche idee forti, creatività e coraggio, con il rischio di ridurci a un mucchio di macerie fisiche e mentali.

Con INARCH, AIDIA e altre associazioni stiamo lavorando per individuare i parametri su cui impostare interventi efficaci sul costruito, per raggiungere realmente il consumo di suolo zero. Costruiremo un futuro possibile se riusciremo a capire come affrontare i problemi del tessuto storico e a ripensare le città trovando la giusta combinazione tra costruito, spazio pubblico, aree verdi, mettendo al centro le persone, con le loro necessità, aspettative, desideri e sogni. Dobbiamo essere determinati per allontanare le auto dal centro città, piantare alberi, riportare l’acqua, ma soprattutto mettere in pratica l’uso temporaneo dei luoghi. Gli edifici ci salveranno, se sapremo ascoltarli.

“Uso temporaneo dei luoghi”. Di cosa si tratta?

È una modalità già adottata in altri Paesi con successo che riguarda la possibilità di rimettere in funzione tutta una serie di immobili e spazi con pochissimo investimento e, allo stesso tempo, riattivare alcuni settori economici con creatività. Per dare possibilità agli individui più fragili di innescare attività che non potrebbero altrimenti mettere in moto per motivi economici (affitti, bollette, ecc).

In Francia, per citare un caso, l’anno scorso è stata siglata una convenzione tra la municipalità di Parigi e 18 grandi immobiliari (pubblico/privato) per affrontare i problemi dell’abbandono immobiliare, che ha preso avvio dall’esperimento di rianimazione urbana di Les Grands Voisins tra il 2015 e il 2020. Dobbiamo superare la dicotomia di centro/periferia che ormai non ha più senso: le pulsioni e le potenzialità urbane diventano comprensibili e affrontabili solo se si considera la città come un organismo unico. L’uso temporaneo ci permette di ridare vita a vecchi edifici inutilizzati o disabitati, e ciò supporta anche la nostra economia, innescando nuove idee e proposte, agevolando i giovani e chi ha idee ma non ha mezzi. Questa prassi ci aiuta anche a capire quali sono le tendenze e come volgerle al meglio, anche per le generazioni più giovani, i talenti, che in alternativa cercheranno altri luoghi in cui creare sviluppo, abbandonando e depauperando così l’intera comunità di origine. L’analisi del contesto, lo studio dei trend, il monitoraggio dei cambiamenti in atto ci permetterebbero di scrivere norme adeguate al nostro momento storico sulla base delle sperimentazioni, e non possono essere valide per sempre. Vanno aggiornate, cambiate, adeguate. I piani regolatori, ad esempio, fanno ancora riferimento alla Legge 1150 del 1942! Ottanta anni fa le esigenze, le caratteristiche, le richieste delle persone, erano completamente diverse da quelle di oggi. Nel frattempo il mondo è completamente cambiato e noi…Stiamo inseguendo la sostenibilità con mezzi inadeguati.

La demolizione secondo lei è un’opzione da prendere in considerazione?

Certamente. Ovunque si procede in tal senso già da tempo perché si sono redatti gli adeguati strumenti normativi per la sua regolamentazione. In tanti paesi addirittura è proprio il privato spesso a chiedere la demolizione di un edificio, e il pubblico procede come previsto dal regolamento in atto, oltre a recuperare tutto il materiale demolito per rimetterlo in costruzione: zero sprechi, pochi rifiuti. Negli altri Paesi lo Stato, i comuni comprano gli immobili dei privati e poi li rimettono a posto e li restituiscono alla comunità, affittando o rivendendo. Questo in Italia è ora impensabile. Eppure basterebbe guardare cosa fanno in Francia, in Germania, in Inghilterra o altrove e semplicemente adattarlo alle nostre esigenze. Possiamo citare fra tutti gli esempi quello di Montpellier e le sue operazioni coraggiose, come il programma “GrandCoeur”, sono diventate modello di simbiosi tra politiche sociali e interventi sulla forma urbana.

Quindi, prima bisogna capire il territorio e mapparlo. Poi si ragiona sul da farsi. Abbiamo immobili degli anni 50, 60, 70. Certe cose sono bellissime e inattaccabili, pezzi di architettura importantissimi. Ma la maggior parte è tutta da rifare. Non abbiamo il coraggio di demolire, e non abbiamo ancora la capacità di organizzare gli spazi che avremmo a disposizione, anche perché la loro opportuna ricollocazione nel tessuto urbano può banalmente arrecare beneficio: questo è un grave vulnus.  Senza contare la carenza di manutenzione ordinaria in generale, dal patrimonio privato a quello pubblico al verde: anche questo è parte integrante della sostenibilità e del rilancio economico.

A proposito di innovazione. Come pensa che riusciremo a ottenere un tipo di edilizia più sostenibile e città davvero green?

Dobbiamo capire cosa abbiamo a disposizione, cosa sta succedendo intorno a noi, quali sono le dinamiche sociali che si stanno evidenziando e come possiamo ricondurle in una realtà insediativa, di qualunque dimensione e grandezza, in modo equilibrato e nel rispetto di un’economia circolare senza sprechi. Green economy e sviluppo partono da qui, da questi presupposti e da queste analisi. Cosa fare? Il punto di partenza è sempre quello: capire quali sono le risorse che abbiamo a disposizione e il valore del bene comune: è certamente un grandissimo ma necessario sforzo da compiere per costruire un futuro possibile.

Da un bel po’ stiamo facendo prevalentemente pratiche di trasloco sui nostri territori: stiamo spostando funzioni e risorse da un punto a un altro, senza però riuscire ad eliminare il problema dell’insufficiente performance urbana, e produciamo solo rifiuti, anche umani.

Poiché non è semplice reinventare il futuro che verrà, oggi abbiamo l’urgenza di capire quale direzione prendere a partire dalle risorse disponibili, e prendere decisioni coraggiose che potranno garantire flessibilità nel tempo.  Per questo, le tecniche dell’uso e dell’urbanismo temporaneo restituiscono azioni adeguate e fortemente interconnesse: ci danno la possibilità di gestire la città in maniera diversa e di poter delineare un programma durevole e maggiormente adattabile alle mutazioni che verranno senza indebolire la struttura della comunità che vi abita, dando così la possibilità di poter decidere anche alle future generazioni.

Il tempo è fondamentale e ci sta sfuggendo di mano. In questo processo bisogna agire come nella ricerca scientifica, che si divide in tempi brevi e tempi lunghi. I tempi brevi sono come le provette di laboratorio, e servono a provare la funzionalità di ogni pezzo delle azioni che definiscono una ricerca più ampia e articolata. E ogni piccolo esperimento andrà a scrivere i risultati della ricerca complessiva, e a delinearne la regola. In questo caso la ricerca che dobbiamo portare a termine sarebbe sta nel ritrovare il benessere di tutta la comunità.

In questo scenario, come si stanno comportando gli studi di progettazione per non rimanere indietro?

Le potenzialità informatiche sono poco sviluppate e applicate nel contesto del patrimonio immobiliare e storico: la sostenibilità sta nell’evoluzione politica e organizzativa dei nostri territori e nell’approccio del bene comune. Serve un confronto costruttivo tra le istituzioni e i tecnici, a livello nazionale e locale, per mettere a punto delle norme che siano adeguate al momento che stiamo vivendo e soprattutto attuabili con risultati soddisfacenti. Questo è l’unico modo per mettere in atto i vantaggi dell’innovazione e praticare la green economy, in modo da valorizzare al massimo le risorse e il patrimonio che abbiamo a disposizione, oppure si andrà avanti con piccoli espedienti: oggi c’è il 110%, domani qualcos’altro, poi chissà… Purtroppo esiste anche un problema di competenze. Dobbiamo certamente mettere a posto il nostro patrimonio dal punto di vista energetico e anti-sismico, ma non dimentichiamo che questa è un’occasione per fare architettura, nel senso più stretto del termine: ovvero ridare dignità e benessere ai nostri luoghi di vita, individuali e collettivi: le città attendono i nostri miracoli!  Per fare questo dovremmo anche recuperare e valorizzare abilità tecniche e artigianali importantissime: non si trovano più falegnami, artigiani, scalpellini… persone che riconoscano le essenze, in grado di curare le cose ammalorate e di contaminare i materiali e le forme di domani. Come possiamo recuperare un Paese senza le giuste competenze? Vengono da tutto il mondo per ammirare i nostri luoghi, i paesaggi la storia e noi dovremmo essere in grado di rimettere valore nei nostri territori, attraverso lo sviluppo di una nuova coscienza critica che potrà farci nuovamente sperimentare il fare architettura. Ci vorrebbero anche dei nuovi corsi universitari per formare tecnici specializzati nel recupero! Accademie in cui lo scalpellino è laureato, conosce la pietra, le differenze tra le diverse tipologie e come lavorarle, anche con il supporto della tecnologia.  Si potrebbe creare l’eccellenza della cultura artigiana e attrarre talenti da tutto il mondo. Il talento e la creatività devono trovare spazio, contaminandosi con l’industria e la tecnologia, per valorizzare il nostro immenso patrimonio, il bene comune. Bisogna far ripartire il Paese sulla base di questo importantissimo concetto. È il più grande progetto-Paese che noi potremmo mettere in atto.