Di Daniele Marini, Direttore Scientifico Community Research&Analysis, Università di Padova –
La crisi avviata col fallimento della Lehman Brother, nel 2018, segnò un punto di frattura radicale. Un analista finanziario, interpellato qualche mese dopo, dichiarò che così come ci fu un prima e dopo Cristo, altrettanto avvenne con un prima e dopo Lehman Brother. A significare dell’importanza cruciale che il fallimento della banca d’affari ebbe sullo sviluppo economico. Le conseguenze erano ancora ben visibili lo scorso anno, quando nel 2020 arriva la pandemia del Covid-19. È evidente che si tratta di due eventi non paragonabili, ma se il primo ha avuto ricadute profonde sui sistemi produttivi e finanziari, il secondo ha investito anche la società nei suoi meccanismi di funzionamento, nelle relazioni sociali e nelle organizzazioni del lavoro, le cui prospettive sono tuttora da esplorare e in buona misura incerte.
Costruire scenari previsionali è operazione ardita, ciò non di meno è utile delineare ipotesi osservando alcune tendenze in atto, che peraltro affondano le radici nel recente passato. Perché, a pensarci bene, alcuni indirizzi erano già presenti.
Uno dei fenomeni maggiormente al centro della discussione è quello dello “smart working” quale strumento per la ripresa del lavoro. Siamo così certi che il futuro passi dalla sua diffusione? Serve fare un po’ di chiarezza.
Lavorare smart non prevede orari, né uno spazio fisico definito dove esercitarlo, disponendo di tecnologie e connettività elevate. In realtà, ciò cui abbiamo assistito durante il lockdown è perlopiù telelavoro (remote working o working from home), ovvero il lavoro a distanza, da casa. Un’altra cosa. Un aggiustamento nelle rappresentazioni è necessario, ora che siamo (o dovremmo essere) entrati in una fase di riprogettazione del futuro: un conto è immaginare un’organizzazione del lavoro in cui una parte degli occupati lavora in modalità smart; altro è ipotizzare il telelavoro. Due opzioni di culture organizzative assai diverse. La prima post-fordista e 4.0, la seconda ancora ispirata al fordismo. E con diritti, doveri e tutele altrettanto differenti.
Le ricerche sui lavoratori dipendenti (Community Research&Analysis per Federmeccanica) svolte durante la chiusura delle attività hanno indicato un suo utilizzo a macchia di leopardo. La recente rilevazione dell’Istat sulle imprese italiane e gli strumenti messi in campo per fronteggiare la pandemia offre una visione realistica, al di là degli slogan, del fenomeno.
Innanzitutto, mediamente un quinto delle imprese (21,3%) aveva introdotto il lavoro a distanza, ma tale strategia è concentrata solo in alcuni settori come i servizi di informazione e comunicazione (69,0%), le forniture di energia elettrica e gas (66,6%), le attività professionali e scientifiche (55,4%), quelle assicurative e finanziarie (47,9%) e immobiliari (42,2%), l’istruzione (52,2%). Tutti ambiti dove le tecnologie digitali erano già impiegate ancora prima della propagazione della pandemia e, quindi, è risultata facilitata una riorganizzazione del lavoro. Nel settore delle costruzioni ciò è avvenuto nel 16,8% delle imprese.
Com’è facile intuire, molto dipende dalla dimensione delle imprese. Se solo il 16,2% delle micro-imprese (fino a 9 addetti) ha spostato il lavoro al di fuori delle sue mura, tale soglia aumenta all’89,5% fra le più grandi (oltre 250 addetti). Dunque, il lavoro da remoto ha riguardato una parte significativa, ma minoritaria dell’universo aziendale, considerato che le micro-imprese sono il 78,9% dell’universo, mentre le grandi coprono lo 0,4%.
È poi interessante considerare quanti sono gli occupati coinvolti dal lavoro a distanza. Prima del lockdown solo l’1,2%, ovvero circa 154mila sui quasi 13 milioni di lavoratori, lavorava in remoto. Durante la chiusura (marzo-aprile) tale quota è salita all’8,8%, concentrati soprattutto nei settori poco sopra ricordati (lo 0,2% nelle costruzioni). In altre parole, la smaterializzazione del posto di lavoro ha riguardato in particolare una parte del terziario e dei servizi. Ma nel bimestre della riapertura (maggio-giugno), il lavoro torna a materializzarsi e la quota di occupati che lavorano da casa scende al 5,3%. Le imprese hanno riassorbito una parte degli occupati, riducendo il novero dei lavoratori a distanza, pur mantenendo comunque una quota superiore a quanto avveniva prima della pandemia. La bolla del lavoro da remoto si è sgonfiata, ma non per tutte le tipologie di aziende: il 33,2% dei lavoratori dell’informazione e comunicazione opera da casa, e così pure il 27,7% di quelli dell’istruzione e il 20,0% dei professionisti, mentre solo l’1,8% nelle costruzioni. Inoltre, questi processi riorganizzativi investono le imprese più grandi (25,1%, oltre 250 addetti), mentre sfiorano solo marginalmente le più piccole (4,5%, fino a 9 addetti). Sotto il profilo territoriale il Nord Ovest è l’area d’impresa più disponibile alla riorganizzazione (6,6%) seguita dal Centro (5,8%), mentre più riluttanti risultano quelle del Nord Est (4,7%) e del Mezzogiorno (4,0%).
Il secondo versante su cui soffermarsi riguarda ciò che potremmo – il condizionale è d’obbligo – attenderci sul fronte della ripartenza delle economie. Se osserviamo quanto è avvenuto dopo il 2008, possiamo trarre alcuni insegnamenti, ma anche avvertenze. Il primo è che, allora, i settori produttivi hanno avuto tempi diversi di uscita dalla crisi. Ma l’incertezza che caratterizza oggi il sistema economico farà sì che le imprese, prima di tornare a investire, resteranno in una situazione di standby. Ciò significa che, molto probabilmente, assisteremo a una ripresa “disordinata”, non per settori omogeni o in modo omogeno all’interno degli stessi singoli settori.
Il secondo è che le imprese che avevano recuperato più velocemente erano le più aperte alle relazioni internazionali, rispetto a quelle che operavano maggiormente su mercati domestici. La diffusione globale della pandemia però confonde lo scenario. Come dimostra l’andamento dei mercati finanziari, finché non si troverà una cura efficace per combattere il virus è probabile che la domanda risulti alquanto variabile.
Il terzo elemento cruciale da evidenziare è la progressiva regionalizzazione della globalizzazione e la conseguente ridefinizione delle filiere produttive. La pandemia ha indicato la fragilità delle catene globali del valore progettate su relazioni lunghe, oltre alla eccessiva dipendenza per il rifornimento di alcuni prodotti da fornitori o mercati lontani. Ciò non significa il decadere delle filiere, anzi, considerato che le imprese organizzate con questa modalità (soprattutto per le più piccole) costituisce una risorsa fondamentale. Semmai si sta osservando un loro ridisegno territoriale e la costruzione di filiere alternative, in modo da evitare l’eccessiva dipendenza da un’unica filiera di fornitori.