Di Antonio Tita – Quella del subappalto è una vicenda che da trent’anni non riesce a recuperare l’equilibrio che ha perso all’indomani dell’entrata in vigore della Legge n. 55/90 (antimafia), che per la prima volta ha introdotto da un lato un limite quantitativo all’esercizio della facoltà di affidare parte dell’oggetto del contratto di appalto ad altro operatore economico e dall’altro condizionato il rilascio dell’autorizzazione della stazione appaltante ad una serie di verifiche ed incombenti di varia complessità. Il tutto sotto la spada di Damocle della sanzione penale ascritta all’affidamento di opere o lavorazioni in subappalto senza la previa prescritta autorizzazione, dapprima punito come contravvenzione e poi da ultimo come delitto.
Vero è che la natura “proibizionista” della legge antimafia poi replicata nel Codice dei Contratti del 2006 e del 2010, pur ispirata al nobile principio della lotta al fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nel mercato degli appalti, ha generato la scontata reazione del mercato tradottasi nel tentativo di ricondurre tutte le attività da affidare a terzi come “forniture con posa in opera” o “noli a caldo di attrezzature e mezzi d’opera” che potevano sfuggire alla disciplina vincolistica (unica condizione quella di dimostrare che la componente della mano d’opera non aveva prevalenza all’interno de contratto).
Ebbene, uno spiraglio di luce si è colto quando la Corte di Giustizia dell’UE, più volte interrogata dal giudice nazionale e nel solco di una procedura di infrazione avviata nei confronti dell’Italia per il mancato rispetto di alcuni principi in materia di contratti pubblici, tra i quali la liberalizzazione del subappalto, ha sentenziato la non compatibilità con il Trattato UE della disciplina contenuta oggi nell’articolo 105 del Codice dei Contratti, là dove prevede il limite generalizzato per il subappalto collocato nel 30% dell’importo del contratto.
Non solo perché il giudice comunitario ha stigmatizzato la condotta dello Stato Italiano, annotando come la lotta alla delinquenza di stampo mafioso, obiettivo dichiarato dall’Italia, non passi attraverso una limitazione al subappalto tenuto conto che per le Direttive Comunitarie vigenti dovrebbe essere tutelato persino il subappalto del subappalto e, quindi, tanto meno non limitato il ricorso a tale modalità organizzativa del mondo imprenditoriale.
Ben due le sentenze della Corte di Giustizia (C-63/18 del 26.09.2019 e C-402/18 del 27 novembre 2019) che a breve distanza di tempo hanno ribadito il proprio dictat al legislatore nazionale che ad oggi non ha inteso introdurre una novella legislativa alla norma censurata; anzi, sta valutando di riprodurre quel limite, demandando alle stazioni appaltanti la scelta di prevedere volta per volta per ciascun appalto da queste ultime indetto un limite al subappalto e di quale entità.
Tale modus procedendi denota in capo al legislatore italiano, a detta di chi scrive, la non esatta rappresentazione dello stato della Amministrazione che non pare attrezzata per condurre una corretta e motivata scelta circa la previsione, in ogni singola gara di appalto, di un limite al subappalto e, del resto, qualsiasi criterio orientativo di una tale scelta, diversificata per tipologia di opere, rischierebbe di reintrodurre sotto mentite spoglie quel limite generalizzato a subappaltare cassato dal Giudice Comunitario.
Non solo, ma la soluzione paventata rischia di amplificare fenomeni di feudalesimo normativo (si ricordi che il bando costituisce lex specialis) con evidenti distorsioni della concorrenza fra operatori economici favoriti o limitati per una stessa tipologia di opera in appalto a seconda della scelta operata a monte dalla stazione appaltante che, in ultima analisi, dovrà necessariamente far riferimento al progettista. Né pare che una tale situazione possa essere agevolmente superata, seppure il massimo organo della giurisdizione amministrativa (Sentenza Consiglio di Stato n. 08101 dd. 17.12.2020) ha recentissimamente preso posizione sul tema, affermando in modo granitico e senza mediazione alcuna che “la norma del codice dei contratti pubblici che pone limiti al subappalto deve essere disapplicata in quanto incompatibile con l’ordinamento euro-unitario, come affermato dalla Corte di Giustizia”.
Vero è che la sindrome da legge antimafia affligge ancora il nostro legislatore, che non pare rassegnarsi a far compiere al mercato quel salto di qualità richiesto dall’Europa e ciò rischia per l’ennesima volta di pesare su un’ economia che necessiterebbe più di un controllo sulla qualità e legalità che è dimostrato non passi attraverso una politica proibizionista (ci si occupasse più di garantire i pagamenti ai subappaltatori ancora oggi alla mercé delle procedure concorsuali piuttosto che di limitare il ricorso al subappalto) tanto più che il modello di impresa in cui una tale impostazione potrebbe forse avere esito non è diffusa nel nostro paese, disseminato di tanti microimprese.
Posto che non credo che all’orizzonte si possa prefigurare una marcia indietro del legislatore nazionale, pare utile sollecitare il mercato ad attingere a quelle forme di organizzazione quali, prima fra tutte, la rete di imprese, che sembra in tutto corrispondere a quella forma di cooperazione continuativa di operatori economici che permette in base al Codice dei Contratti di sottrarre il sub affidamento tra gli stessi alla disciplina del subappalto così come, per espressa previsione normativa (La legge Biagi) di ammettere il distacco di mano d’opera fra le imprese facenti parte della rete senza alcuna limitazione superando il divieto di subappalto di sola mano d’opera.
Non è un caso che lo stesso legislatore in sede di decreto semplificazioni di recente emanazione ha fortemente incentivato l’istituto della rete di impresa individuandolo come uno degli strumenti attraverso il quali permettere di affrontare il delicato problema della crisi indotta dal fenomeno CO-VID19.
La rete peraltro, sotto altro profilo, per la sua struttura snella di facile accesso, permetterebbe di avvicinare il mercato, attraverso il consolidamento nel tempo dei rapporti fra soggetti operatori, all’obiettivo della concentrazione di imprese, fenomeno che altri precedenti istituti (quello dei raggruppamenti temporanei di imprese e dei consorzi stabili) hanno del tutto mancato.